Dopo due tentativi di implementazione frenati dall’intervento della magistratura, il Protocollo Italia-Albania sembra essere entrato in una fase di stallo. La decisione del tribunale di Roma di non convalidare il trattenimento dei migranti detenuti in Albania ha per due volte interrotto le procedure indicate dall’accordo, comportando il rilascio sul suolo italiano delle persone da esso coinvolte.
Per comprendere che possibilità ci siano, oggi e nel prossimo futuro, di portare nuovamente avanti le pratiche stabilite nel Protocollo, è necessario ripercorrere tali decisioni giudiziarie, che – è bene evidenziare – si differenziano tra loro in modo sostanziale. Infatti, se per quanto riguarda il primo gruppo di migranti trasferiti in Albania, i giudici hanno emesso ordinanza di non convalida del trattenimento, relativamente al secondo gruppo di migranti il tribunale ha stabilito di sospendere la decisione sulla convalida del trattenimento ed emettere ordinanza di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Il primo tentativo di implementazione del Protocollo riguardava 12 migranti provenienti dall’Egitto e dal Bangladesh, la cui richiesta di protezione internazionale era stata esaminata e respinta attraverso la procedura accelerata di frontiera. I giudici della sezione immigrazione del tribunale di Roma avrebbero dovuto convalidare il trattenimento dei migranti nel centro di Gjader entro 48 ore dall’ordinanza del Questore di Roma. Tuttavia in data 18 ottobre i giudici hanno negato tale convalida.
Perché il tribunale di Roma non ha convalidato il trattenimento del primo gruppo di migranti detenuti in Albania?
L’art. 4 comma 3 del Protocollo Italia-Albania stabilisce che l’accesso e la permanenza dei migranti nei centri in Albania sono consentiti solo “al fine di effettuare le procedure di frontiera o di rimpatrio previste dalla normativa italiana ed europea”.
Nella normativa italiana l’art. 28-bis del d.lgs. 25/2008 permette di avviare una procedura accelerata di esame delle domande d’asilo direttamente nelle zone di frontiera o di transito in due casi specifici, indicati alle lettere b) e b-bis) del comma 2:
– b) domanda di protezione internazionale presentata da un richiedente direttamente alla frontiera o nelle zone di transito di cui al comma 4, dopo essere stato fermato per avere eluso o tentato di eludere i relativi controlli.
– b-bis) domanda di protezione internazionale presentata direttamente alla frontiera o nelle zone di transito di cui al comma 4 da un richiedente proveniente da un Paese designato di origine sicuro ai sensi dell’articolo 2-bis.
Come osservato dai giudici nell’ordinanza del 18 ottobre, le circostanze e le modalità di arrivo dei migranti presso i centri in Albania così come stabilite nel Protocollo escludono l’applicabilità della lettera b) al caso di specie.
Per quanto riguarda invece la lettera b-bis), i giudici fanno riferimento alla sentenza C-406/22 della Corte di Giustizia dell’UE che chiarisce la definizione di Paese di origine sicuro. In sostanza, la CGUE, pronunciandosi sul caso di un cittadino moldavo, ha fornito la corretta interpretazione dell’art. 37 e dell’Allegato 1 della Direttiva 32/2013 sulla designazione di Paese di origine sicuro.
La Corte era tenuta a pronunciarsi, nello specifico, sulla legittimità di designare un Paese di origine come sicuro ad eccezione di parti del suo territorio. La sentenza ha chiarito che la designazione di un Paese di origine sicuro dipende dalla possibilità di dimostrare che, in modo generale e uniforme non si ricorre mai a persecuzione, tortura o pene o trattamenti inumani o degradanti.
La Corte ha inoltre fornito una lettura complessiva dell’art. 37 della Direttiva 32/2013, ricordando che questo sostituisce il precedente articolo 30 della Direttiva 85/2005 in base al quale nel designare un Paese come sicuro era consentito specificare eccezioni di carattere territoriale o relative a categorie di persone. La Corte ha quindi sottolineato che se la precedente Direttiva consentiva la possibilità di designare un Paese sicuro con esclusione di parti di territorio e categorie di persone, tale possibilità è stata abrogata dalla Direttiva attualmente in vigore.
Ciò consente di dedurre che la sentenza della CGUE non soltanto stabilisce che un Paese può essere designato sicuro solo se lo è nell’interezza del suo territorio, ma impone anche che esso debba esserlo per tutte le categorie di persone.
Ma non solo, con la sua sentenza la CGUE stabilisce anche il dovere del giudice nazionale di rilevare, anche d’ufficio, l’eventuale violazione, nel caso sottoposto al suo giudizio, delle condizioni sostanziali della qualificazione di Paese di origine sicuro enunciate dalla Direttiva 32/2013.
Da sottolineare, inoltre, che le sentenze interpretative della CGUE e i principi in esse enunciati sono vincolanti non solo nel procedimento principale nell’ambito del quale è stata sollevata la questione pregiudiziale ma anche per tutti gli altri Stati Membri Ue.
Bangladesh ed Egitto, Paesi di origine dei richiedenti asilo trattenuti in Albania, non possono perciò essere considerati sicuri dal momento che, come specificato dalle stesse schede Paese trasmesse dal MAECI, non sono tali per alcune categorie di persone.
I giudici del Tribunale di Roma concludono dunque che “non sussiste, nel caso in esame, il presupposto di applicazione della procedura accelerata di frontiera” di cui all’art 28-bis del d. lgs. 25/2008, e che la mancanza di tale presupposto “impedisce un legittimo trattenimento” delle persone migranti in Albania.
Il ricorso del governo alla Corte di Cassazione
La reazione del governo alla decisione del tribunale non si è fatta attendere: in data 21 ottobre il Ministero dell’Interno e il Questore della Provincia di Roma hanno provveduto a impugnare davanti alla Corte di Cassazione l’ordinanza di diniego della convalida del trattenimento. L’Avvocatura Generale dello Stato ha presentato due motivazioni a sostegno del ricorso:
- l’ordinanza del Tribunale di Roma si sarebbe basata su una ricostruzione normativa errata: nello specifico, si ritiene che, se è vero che la sentenza C-406/22 della CGUE impedisce di designare un Paese come Paese di origine sicuro se da tale designazione sono escluse alcune aree territoriali, essa non si pronunci sulle eccezioni relative a specifiche categorie di persone. Dal momento che Egitto e Bangladesh, Paesi di provenienza dei migranti oggetto dell’ordinanza di trattenimento, sono considerati Paesi di origine sicuri ad eccezione di alcune categorie di persone e non di regioni territoriali, il Tribunale avrebbe dovuto ritenerli sicuri in applicazione del decreto interministeriale del 7 maggio 2024.
- il Tribunale avrebbe inoltre omesso di indicare le ragioni specifiche per cui i Paesi in questione non fossero da ritenersi sicuri per le peculiari situazioni dei richiedenti asilo trattenuti in Albania. Sarebbe mancata dunque una reale valutazione dei casi di specie in esame e una verifica dell’appartenenza o meno dei richiedenti alle categorie di soggetti che risulterebbero a rischio nel Paese di provenienza.
La discussione di tale ricorso avverrà in data 4 dicembre 2024 nella pubblica udienza della Prima Sezione Civile della Cassazione. Nel caso la Corte di Cassazione respingesse il ricorso e confermasse quanto stabilito dal tribunale di Roma, ciò comporterebbe anche l’annullamento delle decisioni delle Commissioni Territoriali in merito alle domande di protezione internazionale dei richiedenti, che dovrebbero essere nuovamente esaminate attraverso procedure ordinarie, e non accelerate.
Va sottolineato come le reazioni di alcuni esponenti politici e del nostro Governo alla non convalida del trattenimento in osservanza della sentenza della CGUE, muovono da un equivoco non trascurabile: la designazione di un Paese come sicuro non è una scelta di tipo politico, ma è dettata da criteri normati a livello europeo che limitano la discrezionalità dello Stato membro nella designazione di un Paese di origine come sicuro, proprio alla luce del fatto che rientrare in tale fattispecie comporta una compressione del diritto di asilo e delle garanzie procedurali ad esso connesse.
Il secondo tentativo di implementazione del Protocollo e il rinvio pregiudiziale del Tribunale di Roma alla CGUE
Il secondo tentativo di implementazione del Protocollo, le cui procedure si sono espletate tra l’8 e l’11 novembre, coinvolgeva 7 persone migranti, anch’esse provenienti da Bangladesh ed Egitto. Nei loro riguardi, i giudici della sezione immigrazione del Tribunale di Roma hanno stabilito di sospendere il giudizio di convalida del trattenimento nei centri in Albania ed emettere ordinanza di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Per comprendere i motivi per cui tale decisione si differenzia rispetto alla precedente, è essenziale evidenziare l’uso che il governo ha fatto della decretazione d’urgenza nel periodo intercorso tra i due tentativi di implementazione del Protocollo. Il 23 ottobre è stato infatti pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto-legge n. 158/2024, contenente “disposizioni urgenti in materia di procedure per il riconoscimento della protezione internazionale” e ora confluito come emendamento al c.d. decreto flussi. In particolare va rilevato come il primo articolo del decreto-legge faccia propria la lista dei Paesi di origine sicuri, precedentemente contenuta nel decreto interministeriale del 7 maggio 2024, nel tentativo di elevarla a normativa primaria e scongiurare la possibilità di disapplicazione da parte della magistratura. Ciò appare tuttavia in contrasto con il principio del primato del diritto europeo, che fa prevalere la normativa dell’Unione Europea su quella nazionale, sia essa primaria o secondaria.
I giudici della sezione immigrazione del Tribunale di Roma hanno perciò rilevato l’esigenza di sospendere la propria decisione sulla convalida del trattenimento dei migranti in Albania e richiedere il parere della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. In particolare, i giudici del Tribunale di Roma hanno chiesto alla CGUE:
- se il diritto dell’Unione Europea impedisca a un legislatore nazionale di designare in modo diretto, tramite atto legislativo primario, uno Stato terzo come Paese di origine sicuro;
- se il diritto dell’Unione Europea impedisca a tale legislatore di designare uno Stato terzo come Paese di origine sicuro senza rendere accessibili e verificabili le fonti adoperate per giustificare tale designazione, impedendo al richiedente asilo e al giudice di sindacarne il contenuto;
- se il diritto dell’Unione Europea consenta che, nell’ambito di una procedura accelerata di frontiera da Paese di origine designato sicuro, il giudice possa attingere autonomamente alle informazioni sul Paese di provenienza per verificarne le condizioni sostanziali di sicurezza;
- se il diritto dell’Unione Europea consenta di designare un Paese come “di origine sicuro” se, al suo interno, esistono categorie di persone per le quali quel Paese non rispetta le condizioni sostanziali di sicurezza.
In attesa del responso della CGUE a tali quesiti, e della sentenza della Corte di Cassazione del 4 dicembre, l’operatività del Protocollo Italia-Albania appare al momento “congelata”. Ciò è reso evidente dalla smobilitazione del personale presente nei centri in Albania: dopo il taglio al contingente delle forze dell’ordine, di cui sono rimaste solo 170 unità, questa settimana anche gli operatori sociali dell’ente gestore Medihospes sono tornati in Italia. Nei centri resta quindi solo il personale albanese, tra cui gli operatori sanitari, e 7 dipendenti della cooperativa con ruolo amministrativo.
Non ci resta che attendere dunque i futuri sviluppi giudiziari, nella speranza che confermino l’illegitimità del Protocollo Italia-Albania, un Protocollo che, come abbiamo più volte rimarcato, mette gravemente a rischio i diritti fondamentali dei richiedenti asilo in arrivo nel nostro Paese.